Crítica Mino Iorio (Storico dell’Arte) (Italiano)

 Mino Iorio (Storico dell’Arte)

Itálica è una mostra di artisti spagnoli e italiani che esprime tutto il suo fascino nell’internazionalità dell’evento. Due realtà antropologiche tanto vicine ma, al tempo stesso, caratterizzate da profonde differenze dovute soprattutto ad una diversa storia che ha riguardato i rispettivi territori di riferimento e le proprie città: Murcia, Albacete, Cartagena, Villena, Jávea , Alicante, Algemesí, Valencia, Caudete, la Castilla-La Mancha, la Spagna sud-orientale, per il versante spagnolo; la Campania, Napoli, Saviano, Caserta, Aversa, Santa Maria Capua Vetere, Maddaloni, Salerno, la Calabria, Sibari, San Demetrio Corone, la Sicilia, Canicattì, Catanzaro, la Sardegna, Seneghe, Nurachi, la penisola del Sinis, il Mezzogiorno, per il versante italiano. Ma se questo è vero in generale, in molti casi, più che di differenze, possiamo parlare di veri e propri confronti. Anzi, possiamo dire che in alcune epoche, le vicende artistiche opportunamente storicizzate, si sono sovrapposte generando grandi stagioni culturali e suggestive commistioni. Solo per tener fede a quelle che sono le mie antiche passioni, mi sia concesso di fare riferimento alla sorprendente stagione del “gotico flamboyant” che attraversava il Mediterraneo lungo le rotte e spostava soprattutto geni creativi dalle sponde e dalle corti dei maggiori cantieri valenziani, principalmente verso la città di Napoli, capitale del Regno e da lì, via via, per tutte le province del Sud, Sicilia compresa. Ma questo è il passato, un grande passato, che tuttavia fissa, in termini imprescindibili, le radici culturali spagnole che ancora oggi possiamo definire dedite a quel “serpeggiante fuoco dell’espressionismo iberico” - come amavano definirlo i miei grandi maestri - che tuttora è rappresentato da quella veemenza artistica e culturale fatta soprattutto di colore con un relativo interesse per lo spazio prospettico o informale che sia. Uno stile antitetico che oggi, qui, si confronta senza mai mescolarsi con un astrattismo totalizzante e italiano per la cui lettura rimando ad uno dei più cogenti fenomeni artistici riguardante proprio i territori campani, sviluppatosi tra varchi appeninici e passi collinari posti a contorno delle vaste pianure metropolitane inurbate, da Napoli a Nola, da Santa Maria Capua Vetere a Nocera inferiore, da  Pozzuoli a Castellammare di Stabia, ovvero al gruppo teorico/pratico di “Astrattismo totale” fondato nel 1975 da Mario Lanzione, Antonio Salzano e Giuseppe Cotroneo. In ogni caso la presente mostra rimane interpretazione e rappresentazione segnica del colore come materia tangibile dell’astrattismo contemporaneo.  Su tutta questa concentrazione d’idee e sensazioni, tuttavia, la sfida che oggi l’arte deve lanciare non può prescindere da almeno due fattori essenziali: ambiente e territorio. Il primo in termini di salvaguardia, il secondo in termini di valorizzazione.  Itálica, nel suo insieme, è portatrice di questi due fattori rispetto ai quali ogni artista – degno di questo nome - deve misurarsi per essere di monito e dimostrare quanto il genere umano, procedendo sulla strada che finora ha intrapreso, sia votato al disastro e finanche all’estinzione. Cambiamenti climatici, passaggio dalle fonti di energia mediante i combustibili fossili a fonti di energia rinnovabili, ottimizzazione delle risorse del pianeta sono i temi fondamentali a cui l’arte deve guardare senza più nessuna distrazione e come qualcuno urlerebbe “…con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro” (P.Bertoli). Un futuro sostenibile. In mostra troviamo tutto quello che un uomo vorrebbe per la sua terra, per i suoi affetti, per le proprie aspirazioni, indipendentemente da quale parte delle sponde del Mediterraneo si trovi. Ci sono i sogni, i drammi, gli affetti e i ricordi, ma soprattutto c’è la natura nel suo insieme, dal deserto con le sue cattedrali alle acque cristalline della penisola del Sinis. Ci sono le acrobazie di chi vive ai margini della realtà e le certezze di coloro che da questa realtà si sono sottratti per trovare le risposte giuste nella filosofia delle religioni orientali. Ci sono i viaggi, la musica e il movimento. C’è il teatro, la prima forma d’arte che la civiltà occidentale ha scoperto. C’è la bellezza muliebre che richiama la fertilità e l’abbondanza delle messi. Ci sono perfino i Santi che sotto mentite spoglie proteggono gli uomini e le loro case in nome di un pauperismo folcloristico e un paganesimo cristianizzato.

Così Alberto Balaguer predilige l’arte figurativa attraverso i suoi nudi, avvolti in atmosfere ultraterrene e trasognate inseguendo la morale dantesca di stampo medievale che vede nella mortificazione del corpo, soprattutto femminile, l’espiazione di ogni forma di peccato. Un caldo tessuto cromatico che accompagna gl’incarnati immersi in una luce divina divenendo il simbolo dell’origine del peccato che induce alla condanna e alla dannazione eterna.

Ana Hernández Morote è un’interprete romantica dei nostri giorni rivolgendo la propria attenzione a quei luoghi che caratterizzano i paesaggi del nostro vissuto. Nei suoi dipinti i templi e le cupole si stagliano in primo piano a testimoniare la grandezza che alcuni elementi assumono nel panorama simbolico della quotidianità. Una cultura figurativa sabbiosa carica d’intensità pittoriche che scava sulle superfici delle pareti e ne rende gli effetti materici.

Antonio Ciraci è un artista di grosso spessore creativo dalla profonda connotazione intellettuale. La sua pittura rientra nella corrente informale napoletana che ha avuto i suoi autorevoli precursori in Domenico Spinosa – di cui è stato allievo -  Renato Barisani, Raffaele Lippi, Elio Waschimps, Gianni De Tora, Carmine Di Ruggiero, Armando De Stefano, senza mai però indossare le vesti del disagio culturale perché le sue sono interpretazioni che recano una serenità interiore disarmante sebbene prendano parte alla rottura degli schemi propri della tradizione. Antonio esprime sottile il segno dell’apparizione, solleva l’urlo racchiuso nel silenzio, elabora la rassegnazione costipata nell’animo dell’essere vivente alle prese con la ciclicità dei suoi giorni.

Antonio Requena Solera è in linea con la grande tradizione espressionista informale di respiro europeo da Vedova a Baselitz. Nella sua arte si disgrega ogni ordine prestabilito; irrompe nel panorama dell’intera mostra e sovverte ogni idea convenzionale di percezione. Il suo personale bagaglio culturale s’impone con prepotenza affermando con chiarezza le linee guida della sua arte. Non è mai sommario ed evanescente, le sue creazioni sono sempre prorompenti e lasciano un segno tangibile nel panorama dell’arte.

Antonio Vidal Maiquez con le sue opere segna profondamente la percezione purovisibilista dell’osservatore catapultandolo in un’atmosfera rarefatta e suggestiva caratterizzata da un raffinato linearismo prismatico e da un intenso cromatismo sensoriale. Forte è la sua astrazione – e estrazione - incisoria che pervade l’intera opera la quale nasce solitamente dall’osservazione diretta della realtà ma rappresentata sempre con uno stile del tutto intimo e personale.

Carlo De Lucia, invece, offre la sua interpretazione esistenziale attraverso atmosfere rarefatte e abitate da personaggi simbolici dove il protagonista principale è quel personaggio sagoma tipico della sua tradizione figurativa che compie voli e acrobazie tra gli ostacoli di tutti i giorni. Organizza scene di vita universalizzandole attraverso una gamma cromatica ben definita, il blu per il fondo e il nero per le cifre simboliche del racconto.

Carmela Corsitto, nelle opere proposte, tiene fede al suo filone di artista concettuale mostrando una notevole abilità nel trattare i materiali che arricchiscono notevolmente il panorama della tecnocreatività contemporanea. Materiali plastici e sintetici offrono lo spunto per indagare l’opera nella sua profondità tridimensionale lasciando dialogare il visibile con l’invisibile e provando a determinare un bilancio tra il dare e l’avere insito nella materia delle cose che in ogni caso gravitano - nella loro composizione - intorno ad un ὀμφᾰλός cognitivo. La sua lunga serie dei librioggetto, di cui qui ne abbiamo un importante esempio, indicano bene quale che sia lo scopo della sua produzione: dedicare tutta l’attenzione ad una materia d’elezione più che ad un materia connaturata.

La vena artistica e creativa di Elena Diaco Mayer è tutta riposta nel riflesso che la materia opportunamente lavorata riproduce con tutte le sue interpretazioni. Se al centro di questo riflesso scabro imponiamo una cifra, una lettera o, molto di più, un simbolo specifico della cultura Zen dove “gli opposti si generano vicendevolmente l’uno dall’altro” come lo Yin e lo Yang, Maschile e Femminile - pittoscultura del 2010, qui esposta in mostra - questi diventano una chiave interpretativa imprescindibile sul terreno dell’imponderabile.

La pittura di Enzo Trepiccione continua un discorso analogo basato su di uno specifico repertorio semantico che prende forma attraverso una continua evoluzione segnica e cromatica. L’opera diventa rappresentazione in chiave antropologica e naturalistica dei simboli che hanno caratterizzato la storia dell’umanità, dalle origini al mondo contemporaneo affidando al tratto espressionistico l’intensità del messaggio. Enzo in molti casi sa essere un profondo interprete del gusto sentitamente mediterraneo nel senso che inaugura in molte sue opere quel cromatismo brillante ed emotivo evocando grandi nomi del Novecento come quello di Giulio Turcato che a partire dagli anni Sessanta rivolge tutto il suo impegno esclusivamente all’astrazione e alle ricerche sul colore allorquando in seguito ad un viaggio in Asia fu affascinato dagli ideogrammi cinesi che diventano “vere e proprie rappresentazioni formali dell’espressione” come nell’opera intitolata Segnico, del 1960, e appartenete al museo di arte moderna e contemporanea di Terni. Ebbene analogamente, tutto ciò, è possibile rintracciarlo anche in Enzo Trepiccione con l’aggiunta di una particolare predisposizione alla schematizzazione della superfice del quadro o della tela e ad una pennellata radiosa e smagliante.

La grande passione per la fotografia aerea dei paesaggi rurali del territorio sardo fanno di Francesco Cubeddu un cantore senza tempo della bellezza da tutelare e tramandare alle nuove generazioni. I resti della civiltà dei Nuraghi mettono in collegamento l’artista con la cultura archeologica del suo paese attraverso un astrattismo simbolico. Sono i cosiddetti ritratti della terra che ci parlano attraverso le grandi geometrie d’insieme. Un’antichissima forma d’arte che riguardava già i contadini della preistoria attraverso megagrafismi riprodotti sul terreno appena vangato. Una passione profonda che diventa anche documentazione antropologica attraverso il volo con l’uso del deltaplano a motore.

Nell’arco di pochi anni Gianfranco Racioppoli ritorna anche in questa mostra sul tema del muro realizzando una parete immensa e bianca che fa da sfondo alle “umane vicende”. Una sorta di grande vuoto che l’uomo riempie con le sue azioni determinando le conseguenze in un’epoca storica caratterizzata da una cocente attualità: l’invasione dell’esercito russo di uno stato sovrano come l’Ucraina, innescando una spirale che non accenna ad arrestarsi e anzi promette anni di distruzione e morte all’interno degli stessi confini dell’Europa con il rischio dell’escalation di un vero e proprio terzo conflitto mondiale. La terra si colora di rosso come il sangue dei tanti giovani, dei tanti civili - tra cui centinaia di bambini - che stanno morendo per resistere e mantenere il dominio su di una piccola fascia di terra e di mare che afferisce ai grandi porti di Mariupol e Odessa. Una rappresentazione di un’immediatezza sorprendente che si rivela con la sua semplicità anche agli occhi del più superficiale degli osservatori. Spiccate capacità didascaliche quelle di Racioppoli che si disvelano nell’atto di lanciare i segnali tra i più allarmanti possibile al fine di salvare l’umanità e la natura che la ospita.

Invece per Ilia Tufano il muro non può essere né bianco né vuoto ma deve recare il segno grafico della scrittura. Sequenze di lettere e parole organizzate in stringhe che scorrono l’una sull’altra e che rivelano la mobilità della loro composizione perché secondo una sua fortuita reminiscenza “il futuro non è scritto” ed è determinato dalle azioni compiute dall’uomo nel suo presente alla stregua di “un foglio bianco su cui scrivere il nostro tempo”. L’uso della scrittura nell’arte concettuale ha una tradizione che parte nel 1970 con Joseph Kosuth che la teorizzò su Arts Language inaugurando un lungo filone con opere presenti soprattutto a Napoli a partire dalla sezione di Arte Contemporanea del Museo Nazionale di Capodimonte. Egli facendo ricorso alla scrittura, fissa per la prima volta il principio che il significato di un’opera d’arte prescinde e dalla sua forma e dal suo colore.

Joaquín LLorens riconosce nel metallo delle sue sculture – spesso in ferro -  la materia più adatta per esprimere il fremito che attraversa la sua interiorità ed essere portatore di sogni nella consapevolezza che infondo solo chi sogna è vivo. Nel minimalismo egli trova la sua principale forma espressiva e riconosce nella storicizzazione delle arti il crinale oggettivo più adatto a stabilire lo spessore culturale del fare artistico. Da autodidatta attinge alle innumerevoli correnti artistiche locali e internazionali ma le sintetizza con vigore ed eleganza plastica come avviene nei versi delle poesie del poeta villenense, a lui molto vicino, Fernando Sánchez García, che nella sua raccolta intitolata “Del negro al verde nacido” espone tutto il suo universo e “verso cromatico”, che va appunto dal nero al verde nativo. Le sculture di Joaquín, come questi versi, senza remore, né retorica, diventano il messaggio messo nella bottiglia di un naufrago che si lancia alla ricerca di qualcuno che lo legga e lo conservi.

Juanjo Jiménez nella sua serie intitolata “Il Nord” mostra la sua grande passione per le ambientazioni naturalistiche e incontaminate. Dichiara tutto il suo amore per quegli scenari intatti, neanche lontanamente scalfiti dalla mano dell’uomo. Una creatività che espone la natura in primo piano frutto di esplorazioni dove le tecniche pittoriche, a lui molto familiari dai tempi della formazione, e le tecniche fotografiche, si fondono creando autentiche interpretazioni visive dal sapore descrittivo e inventivo insieme. Come in un lavoro di bottega alla stregua del vecchio pittore, a lui caro, Alfonso Quijada di Valdeganga (Albacete), che aveva nella sua farmacia il luogo d’incontro per tanti artisti, uno spazio/laboratorio dove la scienza era fonte d’ispirazione per le sue opere e Juanjo da giovane lo osservava intento ai suoi lavori come un discepolo del medioevo osserva il suo maestro intento triturare i colori secondo l’antica sapienza dello speziale.

Lucio Afeltra interviene in mostra con una proposta di sapore intellettualizzante che si presenta con uno spartito diviso a metà di estrazione strutturalista (un dittico). Una prima parte profondamente espressionista riproduce una stratificazione verticale segnata nel passaggio dal giallo dell’ignoto al celeste geometrico della ritrovata logica. Una seconda parte molto decisa composta da un estratto tipografico unito ad un’impalcatura di quelle tipiche utilizzate per la conservazione negli scavi archeologici sulle quali si sovrappongono o si affiancano segni simbolici. La sua è una tendenza naturale all’installazione perché nel suo linguaggio convivono contaminazioni e sovrapposizioni derivanti dalla poliedrica espressività dell’arte contemporanea.

Anche per Marco Pili (come per Francesco Cubeddu più sopra) la penisola del Sinis, nella Sardegna centro-occidentale, rappresenta le radici di un naturalismo di base che lo accompagna costantemente nel suo percorso di artista. Forse tra i due la differenza non è tanto nel messaggio che rimane di grande suggestione ma nell’approccio a questo grande patrimonio naturalistico del territorio. Alla visione aerea dei luoghi Pili preferisce affondare le braccia nel terreno carico di sensazioni materiche coinvolgendo tatto, olfatto, gusto, vista e udito. Per lui sono il pane Carasau, le terre, le argille, le sabbie, i legni, le cere, il sangue di bue, i tessuti e i resti di antiche pergamene ad interessarlo. Tutto ciò traspare prepotentemente nelle due opere presenti in mostra. Fasce larghe di bande cromatiche intense che attraversano le superfici dei riquadri scabri. Il linguaggio dominante è quello informale che genera un astrattismo attento alla cultura d’origine, al mondo rurale tipico della civiltà sarda, a un territorio selvatico e sconfinato, fiore all’occhiello del Bel Paese dai paesaggi e tratti straordinari, tuttavia da proteggere e valorizzare.

Maria Credidio, almeno dal 2020, adotta un linguaggio ispirato ad un raffinato minimalismo che traspare intensamente dall’opera presente in mostra. La sua è una ricerca che parte da lontano e affonda le radici nell’informale e nell’astrattismo ma da almeno un decennio, in maniera molto specifica, le sue opere abbandonano ogni tipo di ridondanza per esaltare linee e concentrazioni geometriche che vibrano e si moltiplicano sotto l’effetto della luce. L’uso del monocromo è un ritrovato plastico che aumenta gli effetti di luminosità che catturano l’attenzione dell’osservatore attraverso le forme e i profili essenziali istaurando una distaccata comunicazione dei contenuti. Per Ludwig Mies van der Rohe, architetto e designer tedesco, la minimal art si esprimeva attraverso il motto "less is more" per esprimere un’integrità strutturale fino ad essere una vera e propria filosofia di vita. Ed è proprio questo che la Credidio in ultima analisi intende trasmettere: la scelta di una vita semplice che non rinuncia a niente ma ricerca soltanto ciò appartiene ad una volontà personale al fine di procurare soddisfazione interiore alla stregua dei grandi maestri spirituali, come Buddha, Epicuro, Gesù, San Francesco d’Assisi e Gandhi.

Mariangela Calabrese espone un’arte carica di suggestioni cromatiche elaborate attraverso anni di ricerca negli accostamenti e nella scelta della distribuzione dei flussi di colore sulla superficie del quadro. Possiamo dire che il suo è un linguaggio concettuale improntato all’estensione. Infatti, nell’opera in mostra pratica il dripping secondo la tradizione più pura rifacendosi per questo all’espressionismo classico americano di Jackson Pollock e Willem de Kooning ma modula l’action painting in un perimetro geometrico molto elegante e sconfinato generando forme simboliche ben definite. Questo tipo di scelta produce un lessico che di fatto è un processo artistico antitetico al minimalismo degli altri artisti presenti in mostra perché il concettualismo di Mariangela si rifà più al “Colour field", cioè alla pittura fatta di campi di colore, che il critico d’arte newyorkese Clement Greenberg teorizzò intorno al 1940 vedendo nella Minimal Art una progettazione tendente al rudimentale e riconoscendo nei sentimenti prodotti dalle campiture cromatiche la forza di elevare l’opera ad un alto livello di intensità artistica.

I dipinti di Marina Torres Medina seguono un linguaggio avanguardistico di sapore schiettamente futurista. L’interesse per le correnti artistiche italiane è evidente. Scompone le forme e le rende progressive elaborando il senso del movimento che si accompagna ad una sinestetica rappresentazione fatta di violini e spartiti. La Violinista e La Natura morta con violino proposte in mostra si sviluppano intorno ad un asse centrale lasciando nello sguardo di chi osserva un senso rassicurante di equilibrio visivo. Il futurismo storicamente è la prima delle avanguardie nate in Italia di respiro europeo ma purtroppo, divenendo una delle correnti artistiche più seguite durante il ventennio fascista, finirà, per motivi strettamente politici, ad essere messa da parte o quantomeno passare in secondo piano a partire dal 1944 in poi con la morte del suo fondatore, il poeta Filippo Tommaso Marinetti. In realtà questa sorta di damnatio memoriae sarà osteggiata - a giusta ragione - da tanti artisti nel tempo originando una corrente neofuturista tout court fondata da Daniel Schinasi nel 1969 e tuttora seguita da grandi nomi come quello di Antonio Fiore - di cui recentemente ho avuto l’opportunità di presentare alcune sue opere in occasione della mostra Religio (2021/2022) da me presentata a Sermoneta (LT) - del suo maestro Sante Monachesi e, nel caso d’Itálica, dalla stessa Marina Torres Medina che qui abbiamo in mostra a riprova della tendenza da parte di questa pittrice spagnola a voler intrecciare con il panorama italiano ogni forma di interazione.

Mavi Rico Vidal è artista già noto in Italia soprattutto per le sue recenti esposizioni di cui ricordiamo soprattutto “Contaminazioni Astratto – materiche. Artisti per l’Arte/Studio – Gallery” (2021). E proprio nell’ambito di quest’esperienza di “matrice Astratta, prevalentemente materica” che si riesce bene ad inquadrare il linguaggio informale di Mavi Rico Vidal interamente giocato sul “Colour field" - di cui ho già parlato più sopra - cioè di quella pittura realizzata attraverso i campi di colore, ovvero - e come ho già detto - una forma di espressionismo che rielabora l’intera tradizione espressionista - riconducibile a mio avviso soprattutto all’ambiente iberico - basata solo ed esclusivamente sull’effetto materico del colore ignorando ogni forma di profondità o sfondato prospettico.

Specialista in libri d’artista, Natalia Pérez Chazarra è un’interprete molto importante del gusto minimalista intenso e radicato nell’arte tradizionale del suo territorio. Proprio ad Alicante le feste popolari prevedono la costruzione di monumenti realizzati con legno e cartone riciclato che poi diventano grandi falò in onore di San Giovanni Battista. Sono Les Fogueres de Sant Joan che da Jávea ad Alicante coinvolgono intere popolazioni in un grande momento di religiosità e folclore a metà strada tra il sacro e il profano. In Italia manifestazioni di questo tipo affondano le radici nell’antichità, soprattutto nel napoletano e in Campania, dove l’atto del bruciare ciò che è vecchio – mobili, arredi in disuso, suppellettili etc. – in occasione dei cosiddetti fuochi di Sant’Antonio Abate, o più tradizionalmente Sant’Antuono, è legato a pratiche propiziatorie di chiara provenienza contadina. La cultura di Natalia Pérez Chazarra mostra così di superare il confine antropologico della sua terra e di esser in piena sintonia con la vocazione dominante in tutto il bacino del Mediterraneo attivando il suo profondo senso dell’eleganza e della rappresentazione simbolica che ne fa di lei un’illustratrice delicatissima e molto originale di libri.

Norberto Legidos López in queste due opere utilizza un linguaggio informale astratto da cui traspare una profonda attitudine a quei passaggi cromatici estesi tipici delle tecniche grafiche e caratterizzati dai continui provini effettuati sul colore. Di questi passaggi l’artista se ne innamora fino ad inquadrarli come campi visivi da sottoporre ad un’analisi lenticolare di evidente intensità espressionistica. Non rinuncia alla suggestione d’insieme generando quadri dotati di una preziosa qualità cromatica.

L’opera di Ombretta Gazzola è profondamente materica. Si anima attraverso un contrasto tra tinte calde e colori ispirati alla terra. L’ocra domina per luminosità e brillantezza generando un’autentica dominante visiva. La cornice circoscrive il dipinto in maniera netta contribuendo ad una lettura molto concentrata e senza possibili divagazioni sulla scelta dello spazio creativo. Su tutto emerge una raffinatezza degli accostamenti che fanno di quest’opera un autentico capolavoro sensoriale.

Le opere di Paco Mora mostrano chiaramente la sua origine formativa in ambito grafico. L’astrattismo formale è relegato tutto in secondo piano e quasi coperto visivamente dalle direttrici oblique a banda nera dell’impianto strutturante dell’intera rappresentazione. Si tratta di effetti cromatici disinvolti che assumono tante variazioni soprattutto tra facce tetraedriche volutamente caotiche e caratterizzate da una sua personale firma a forma di cerchio di color ocra.

Pepe Francés realizza queste sue sculture presenti in mostra adoperando un linguaggio minimalista avulso da qualunque tentazione retorica. Attraverso l’uso del multilaterale riesce a selezionare piccoli mondi emotivi dove il metallo piegato e smaltato con tinte forti e decise quali il nero e il rosso oppure il legno opportunamente innestato su vari pezzi spesso conservando la corteccia dell’aspetto naturalistico originario sono le cifre plastiche di una materia tutta sua intima e personale. La cultura che ne traspare è profondamente avanguardistica in sintonia con un’autentica e aggiornata scelta artistica contemporanea.

Salvador Torres nelle sue due opere presenti in mostra s’ispira ad surrealismo tutto suo e particolare caratterizzato da una profonda tecnica basata su di un espressionismo cromatico e formale. Egli elabora una pittura concettuale di profondo significato teorico. In tal senso essa potrebbe alludere al significato metafisico attraverso una lettura filosofica che cerca di cogliere l'essenza oltre l'apparenza fisica della realtà. Vuole andare al là dell’esperienza sensoriale e innescare le speculazioni ideologiche. Prevalgono scene e atmosfere dell’immaginario da cui scaturisce senza alcun dubbio una dimensione surrealista e onirica riconoscibile attraverso la luce che “getta ombre” iper-reali sulle superfici immateriali del suolo. C’è New York simboleggiata dalla grande mela che diventa un gigantesco solido cromatico in dominante esposizione. C’è l’urbe o più precisamente Cartagena con i suoi edifici archeologici monumentali a riprova che nell’antichità la civiltà romana ha già avvicinato i due mondi. Essa è simboleggiata da una grande mela verde, simbolo della primordialità degli antichi. Due simboli delle origini dell’umanità ben definiti dal pennello dell’autore che al tempo stesso prende parte diretta alla scena come nella più ricorrente delle tradizioni rappresentative dalla Classicità al Rinascimento alla pittura dei secoli successivi, fino all’epoca nostra contemporanea.

L’opera di Salvatore Pepe è il risultato di tutta una sua lunga produzione che in sintesi possiamo definire dedita ad uno stile informale basato su vere e proprie ricognizioni sul colore. La linea di separazione tra fasce cromatiche non è mai un tentativo per isolare le forme ma diventa un contenitore entro il quale il pigmento cromatico viene studiato e sottoposto ad un’attenta riflessione cognitiva. Così facendo l’artista genera atmosfere uniche che in quest’opera risentono di un informale sintetico, deciso, senza spazi e cedimenti alla retorica formale. Questo linguaggio potrebbe prestarsi a tante interpretazioni lasciando trasparire ambienti, paesaggi e scenari di ogni tipo. In realtà l’autore si prodiga esclusivamente di rendere i suoi concetti attraverso scelte estetiche semplici ma efficaci.

La sapienza artistica di Silvia Viñao è immediatamente percepibile. Una lunga formazione figurativa e conoscitiva si cela dentro le sue forme muliebri tanto da far trasparire legami con tutta una tradizione pittorica italiana ed europea. Sembra del tutto scontato citare la pittura veneta, i ritratti di Tiziano Vecellio e i busti femminili di provenienza classica e romana ma il tentativo di quest’artista è squisitamente evocativo. Il suo obiettivo è quello di creare versioni espressionistiche di soggetti altamente simbolici e refrattari a qualsiasi forma di metamorfosi plastica e formale. Pertanto si evidenzia in questo frangente lo sforzo immane a cui sottopone la propria abilità per sfuggire ad ogni banale tentativo di copia di un archetipo di partenza per spaziare esclusivamente nel mondo dell’astrattismo espressionistico.  

Virginia Bernal affida ambientazioni, personaggi e temi ad una chiara rappresentazione simbolico-espressiva con l’uso della “scrittura” accostata all’immagine secondo una nota tradizione europea molto in voga lungo tutto il Novecento. Le sue sono scene che si rifanno al teatro della vita dove ciascuno di noi finisce per esserne il protagonista incosciente in quel “gioco” pirandelliano che s’innesca tra l’io e l’altro/gl’altri. Quello di Virginia Bernal è un gusto che predilige il polimaterico con il riutilizzo di oggetti appartenenti al vissuto e legati al ricordo con grandi suggestioni verso frammenti di carte dipinte e ritagli di riviste. Il protagonista dei ricordi è spesso un personaggio rappresentato da una statuetta giocattolo che mantiene i suoi ruoli e coltiva i suoi sogni. 

L’arte di Vittorio Vanacore predilige gli effetti materici come l’insorgenza della ruggine su supporto metallico. Questa trasformazione naturale viene messa a confronto dall’artista con le linee vive della stessa superficie che attraverso opportune spazzolature e levigazioni rende le intersezioni particolarmente sensibili alla luce. Si tratta di un supporto dove s’integrano strappi e velature circoscrivendo l’intera rappresentazione in uno spazio di fatto indefinito. Spesso nelle opere di Vanacore ad attraversare la scena su linee appositamente sospese sono piccole barchette di carta o semplici corpi solidi che stanno ad indicare quanto l’invenzione principale sia profondamente fantasiosa e di evasione. “Nuovi mondi possibili” sarebbe un titolo che regge molto bene per molte opere di quest’artista. Ma queste dimensioni lui le sperimenta con grande suggestione emotiva che sceglie di non intitolare l’opera per dare all’osservatore la completa libertà d’interpretazione. 

Nei ritratti di Xavi Ferragut sono ineludibili le esperienze di viaggio realizzate dall’artista tra le popolazioni dell’Africa occidentale somatizzando spesso tutto il dramma dell’impoverimento del continente africano rispetto allo sfruttamento che altre parti del pianeta esercitano su di esso. Originario di Algemesí, comune in provincia di Valencia, fa trasparire in modo evidente tutto l’interesse per gli abitanti delle sponde opposte del Mediterraneo ricalcando un aspetto culturale ricorrente in questo territorio della Spagna e riconducibile alla fondazione da parte degli arabi di molte di queste città. Purtroppo uno status sociale di ricchezza che in molti casi è risalente a secoli fa e che oggi stentiamo a riconoscere tra i villaggi dell’Africa abitati da poveri e diseredati, esseri umani a cui rimane come unica possibilità di riscatto sociale e civile il ruolo del migrante.

Mino Iorio (Storico dell’Arte)